Povertà in Svizzera
Uno studio tardivo e proposte ridicole



Nel 1987 fu elaborato in Ticino il primo studio nazionale sulla povertà. Questo studio mise in evidenza che la povertà esisteva in Ticino e che non si situava ai margini della società, ma era già presente nel cuore di essa. Dieci anni sono passati da questo a dio e il Fondo Nazionale della Ricerca (FNR), stanziando una somma considerevole (qualche milione di franchi), ha elaborato un nuovo studio sulla povertà a livello nazionale. Nell'emissione Caritas Insieme del 25.1.97 abbiamo incontrato Christian Marazzi, economista, studioso presso il Dipartimento Opere Sociali, docente all'Università di Ginevra e autore proprio dello studio di dieci anni fa "La povertà in Ticino". Vi proponiamo alcune considerazioni di Marazzi estratte dall'emissione.

D: Perché oggi questo studio?
R:
Ho delle critiche riguardo a questo studio del FNR. Prima di tutto siamo già entrati in una fase nella quale le ricerche utili sono quelle mirate sul cosa bisogna fare per combattere la povertà. Ricerche, quindi, che mettono in discussione lo stato sociale, la rete di sicurezza sociale ereditata dal passato, e che verificano caso per caso, settore per settore, il tipo di bisogno e il tipo di dinamiche che le nuove forme di povertà sottendono. Mi sembra quindi che sia uno studio tardivo per il tipo di questioni che si è posto e per il tipo di metodologia utilizzato. Uno studio del genere ha alimentato molte aspettative per poi finire a dire delle cose che già si sapevano (...), concludendo con delle proposte che sono veramente ridicole rispetto a quanto è già stato fatto a livello cantonale in Ticino o in altri cantoni. Penso per esempio a tutto quello che la società civile ha già espresso con forme di intervento e riflessione che vanno ben oltre i risultati, le conclusioni e le proposte di questo studio.

D: Abbiamo costruito uno stato sociale con troppe leggi e troppi labirinti dove la persona normale non riesce a trovare la porta giusta?
R:
Lo stato sociale che abbiamo ereditato dai primissimi anni del dopoguerra è uno stato sociale che è divenuto via via sempre più complesso perché non è nato sulla base di un piano o un progetto chiaro, ma è nato sulla base di spinte dal basso venute dalla società civile e da associazioni. Vi è stato quindi un intrecciarsi di regole, di leggi e dispositivi che sicuramente lo rendono poco leggibile e intelligibile. È questo sicuramente un aspetto di frammentazione, che chiamerei storico. All'interno di uno stato sociale di questo tipo vi sono dei rischi di esclusione, proprio in virtù delle stesse regole che lo determinano.

L'altro aspetto riguarda lo stato sociale stesso. Credo che esso presenti delle inadeguatezze. Bisogna riflettere sui suoi limiti o sui suoi aspetti negativi dal punto di vista della trasformazione dei modi di produrre, lavorare e comunicare. È veramente questo credo l'aspetto più difficile oggi ed è in questo senso che lo studio di Berna è in ritardo perché se vogliamo parlare di povertà non lo si fa per ragioni estetiche o letterarie. Si parla di povertà per lottare contro essa, sennò è un tema che rimane ideologico; quindi parlando di povertà si deve parlare di stato sociale e della sua adeguatezza o meno. (...)

La povertà non è qualcosa di periferico, una sorta di riserva indiana dove si trovano tutti gli sfortunati o gli svantaggiati. È qualcosa di trasversale che tutto sommato concerne due terzi della società, se non di più. È un rischio che corriamo un po' tutti. Questo significa che la povertà è un indicatore delle trasformazioni in corso. In quanto tale, la riflessione sulla povertà è la riflessione sulla adeguatezza o meno dello stato sociale che ovviamente è stato costruito per un altro tipo di società: la società della produzione, della occupazione a lungo periodo, della piena occupazione, della famiglia stabile e di una certa piramide demografica per età. Tutte queste cose sono in crisi. Non c'è ne una che si salva. (...)

D: Oggi sappiamo che uno svizzero su dieci vive una situazione di precarietà, sappiamo che la disoccupazione aumenta, non esiste una crescita economica sicura, molti disoccupati entrano in assistenza ... La domanda che viene spontanea è "ma qual è la strada da percorrere?"
R:
Una direzione da intraprendere è quella di legittimare delle attività di extra mercato e di dargli un valore etico, culturale e direi addirittura economico. Per esempio, il lavoro dei genitori per accudire i figli è un lavoro importantissimo per la società, è un contributo alla ricchezza del prodotto interno lordo che alcune persone si sono ingegnate a calcolare. C'è tutta un area di attività non riconosciuta dal mercato che deve essere riconosciuta. Per questo ci vuole una grossa iniziativa a diversi livelli, etico, culturale e politico. È un lavoro che richiede un lungo periodo, ma è anche una direzione inevitabile. (...)

Un altro aspetto è quello di riuscire a razionalizzare la sicurezza sociale in modo tale da garantire quella equità, almeno al livello del minimo vitale. (...) Un'altra pista che secondo me è fondamentale è quella di riuscire a coniugare solidarietà, libertà e autodeterminazione. Se i processi lavorativi di ristrutturazione della produzione fanno sempre più ricorso al lavoro autonomo indipendente, ma se questo lavoro non è garantito dal punto di vista della copertine/copertura dei rischi, allora io vedo nell'associazionismo un modo per innovare i suoi stessi contenuti e la sua stessa missione. Cioè fornire quel tessuto di rapporti, legami e spazi collettivi dei quali ha bisogno chiunque si trova a lavorare in proprio.

Un'ultima cosa importante da notare é che in questa trasformazione della società la sequenza delle fasi di vita, che nel vecchio stato sociale era data per ricorrente, sta cambiando. Tutto lo stato sociale è stato costruito sulla base della sequenza infanzia, adolescenza, formazione, attività lavorativa e vecchiaia. Queste fasi della vita di ciascuno di noi, volenti o nolenti, a volte per scelta ma a volte perché si è forzati, non sono più in rapporto lineare e sequenziale. Per esempio c'è chi abbandona il lavoro a quarant'anni per mettersi a studiare all'università, o chi resta a casa con i figli mentre la moglie lavora, oppure chi diventa vecchio prima del tempo perché messo in pre pensionamento a cinquant'anni. Il problema dello stato sociale è che rispetto a queste situazioni, che diventano sempre più importanti, non è abbastanza flessibile. Questi cambiamenti oggi comportano il rischio dell'esclusione e non l'opportunità dell'arricchimento. (...)

Si spende molto per certe copertine/coperture assicurative o di aiuto sociale, però si lascia totalmente scopertine/coperto questo universo fatto di uomini, donne e giovani che hanno bisogno di questi cambiamenti per poter essere attivi nella società e per poter dare, acquisendo nuovi strumenti, quanto hanno dentro.